
La società ci vuole infelici, ci vuole non appagati, mancanti di qualcosa, rotti. Questo perché se abbiamo qualcosa da desiderare, qualcosa da ricercare o da sistemare, siamo potenziali acquirenti. "Vieni, compra questo nuovo rasoio, così tutti ti vedranno figo e tu sarai felice!" "Compra il nuovo profumo, ti sentirai una donna indipendente e sarai felice!". Tutta la pubblicità è una enorme promessa di felicità, veicolata attraverso beni consumo che promettono di farti stare meglio.
I social network concorrono a renderci infelici. Scorriamo stories in cui i nostri conoscenti o gli influencer che seguiamo fanno cose e pensiamo "Wow, che vita piena che vivono, loro si che sanno stare al mondo, non come me che faccio una cosa sola al giorno". La realtà è che anche loro fanno una cosa sola, ma nel carosello in cui ci vengono servite tutte insieme, danno l'illusione di essere ai margini di una realtà di cose bellissime che gli altri fanno e noi no. Spesso esperienze che necessitano di acquisti e consumi.
Il risultato è ci affanniamo per stare al passo di questa visione distorta perché ci sentiamo infelici nell'esserne in qualche modo esclusi. Ecco allora che fissiamo gli aperitivi con gli amici, la palestra almeno tre volte a settimana, il cinema, i concerti e i weekend via. Spendiamo capitali per cercare di essere felici, combattendo un sistema che lavora nel senso opposto.
C'è da dire anche un'altra cosa: l'idea o concetto di felicità a cui spesso ci rifacciamo è quello di quando eravamo bambini. La gioia della mattina di Natale quando aprivamo i doni, una visita inattesa da parte di qualcuno a cui volevamo bene, il divertimento con gli amici, le piccole grandi avventure. Era una felicità totalizzante, quella di piccole creature appena affacciate sul mondo e tenute al sicuro dal contesto famigliare. Una felicità incoscente, senza reti di sicurezza.
Quella felicità sappiamo che non tornerà più, non perché cose belle non possano capitare e non sappiamo riconoscerle, ma piuttosto perchè siamo ormai consapevoli, da adulti, che "tanto fra un po' capiterà qualcosa di meno bello, quindi bene, ma teniamoci pronti!". Ora le reti di sicurezza le abbiamo, ce le siamo costruite per tutta la vita e non le molliamo per nulla al mondo.
Per tutti questi motivi, negli ultimi anni, ho preferito sostituire la ricerca della felicità con quella della serenità.
Mi spiego meglio. Ho cercato di abbandonare la faticosa e consumante ricerca della gioia idilliaca che spesso significava vivere una montagna russa di su e giù emotivi, per dedicarmi a riconoscere un trend più morbido e costante di benessere.
Sto bene, amo e sono amato, vivo una vita dignitosa e ho un lavoro che mi piace. Tutto questo è molto più di ciò che ha la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Sono nel 20% del mondo che sta meglio, ed è un dato di fatto.
Non ho alcun motivo per essere preoccupato o infelice, perché sto tra quelli che stanno meglio. Non sarà una auto nuova, un aperitivo in più o foderarmi l'agenda di impegni a farmi stare meglio. Io sto già meglio. Io ho la serenità.
Poi, certo, posso concedermi delle coccole, dei vizi, dei piaceri, ma non ne sono alla spasmodica ricerca. Non dipende da loro il mio benessere. La serenità si basa su cosa semplici, su minimi termini, su gesti. Non mi serve un aperitivo fuori con gli amici, mi bastano gli amici, anche a casa. Non mi serve una auto nuova, mi basta muovermi andare in giro. Non mi serve cenare nel posto lussuoso con la mia ragazza, ma andare fuori a cena, insieme, anche con menù di lavoro.
La serenità è più facile da raggiungere, se siamo in grado di riconoscerla e ci permette di vivere meglio, senza affanno, con piacere e pienezza.
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